Filosofia terapeutica

Quando incontro una persona mi impegno a focalizzarmi e a sentire il suo personale modo di vivere ed esprimere il disagio. Ci prepariamo insieme al cambiamento, che deve necessariamente esserci, rispettando tempi e modi per raggiungerlo. La persona quindi comincerà un percorso (breve o lungo) entro una relazione di fiducia, rispetto e collaborazione reciproca.

Ogni terapeuta ha in mente in maniera più o meno consapevole (oggi si dice in maniera implicita o esplicita) una propria Filosofia Terapeutica che equivale a dire una teoria del cambiamento che si applica a obiettivi terapeutici etici e possibili (Canevaro, 2010).


Preparare il cambiamento

Il cambiamento va preparato lavorando alla costruzione dell'”alleanza terapeutica”  quella “dimensione interattiva riferita alla capacità di paziente e terapeuta di sviluppare una relazione basata sulla fiducia, il rispetto e la collaborazione e finalizzata ad affrontare i problemi e le difficoltà del paziente” (Lingiardi & Colli, 2003).


Questione di stili

Il terapeuta deve essere capace di individuare “lo stile” del cliente ed adattarsi ad esso, valutando quanto il suo stile personale si adatti a quello del cliente. Quindi non si tratta solo di capire la persona ma di sentire la persona che ci sta di fronte.

Quando parlo di “stile” di una persona (ma anche di una coppia o famiglia intesa come sistema) intendo il modo di essere e comunicare al mondo, di leggere le informazioni dal mondo (sia quello interno che esterno), il modo in cui si agisce (o reagisce) al mondo, il modo in cui si narra se stessi e il mondo, vuoi implicitamente mediante fantasie, associazioni, immagini, il corpo, la comunicazione non verbale, vuoi esplicitamente tramite vari strumenti in primis il linguaggio verbale); è il modo in cui si costruisce la propria immagine (per sè e per gli altri). Insomma “il modo in cui si gestisce la propria vita nei diversi contesti relazionali”. Dopo questo primo incontro (che non si esaurisce necessariamente ad una sola seduta) è possibile cominciare a pensare al cambiamento, poiché sono state poste le giuste premesse per un rapporto fiduciario.


La mia visione dell’uomo

Il concetto di uomo è fuorviante mi piace più il concetto di Persona in quanto individuo umano, che potremmo qui utilizzare in maniera interscambiabile. La persona poi non va concepita singolarmente ma gli va riconosciuta la sua natura squisitamente relazionale; pensare al singolo implica collocare l’uomo fuori dal mondo di relazioni che hanno contribuito a formare la sua mente, privandolo delle esperienze relazionali fondanti. L’uomo è tale proprio in rapporto agli altri uomini e al modo in cui gestisce e mantiene le relazioni. Noi naturalmente proveniamo dal “due” (una coppia) che dà vita ad un “terzo” (il triangolo), quindi di base dobbiamo tenere conto di tale triangolo come unità minima di osservazione che alcuni hanno definito “triangolo primario” (Fivaz-Depeursinge et al 1999). Lo psicoterapeuta M. Bowen (1979) scrisse: “Il triangolo è un modo naturale di essere…”. Oltre al triangolo poi ci sono relazioni più complesse in cui siamo immersi: “Non c’è niente al di fuori della relazione; […] l’essere umano esiste solo in relazione a qualcuno. Se non c’è relazione questa persona non c’è (Cecchin, 2008). Per questo motivo la persona va sempre collocata in un sistema di relazioni che spiegano ciò che è e ciò che fa.

Se mi chiedessero di pensare un’immagine che rappresenti bene l’uomo mi piace immaginarlo in cammino, in viaggio. Viaggio significa sempre separarsi da qualcosa per scoprirne un’altra, allontanarsi da una certezza per avvicinarsi a una meta sconosciuta, a un’idea, a se stessi.


La teoria del cambiamento che prediligo (ad ora)

I cambiamenti sono entrate in altri luoghi mai abitati, in nuovi contesti. La teoria del Ciclo vitale, afferma che tutti (in relazione al contesto culturale di appartenenza) debbono affrontare eventi critici, passaggi trasformativi nella vita. Per esempio: l’adolescenza è un evento critico che accade a tutti (normativo); una violenza traumatica è un evento critico che non accade a tutti (paranormativo). Superare tali eventi, che chiamiamo “compiti di sviluppo”, porta  al cambiamento. Ma superare non è un semplice “andare oltre”, ma affrontare un lavoro su quegli aspetti emotivi e relazionali che sono alla base di un blocco di sviluppo (evolutivo), sullo squilibrio che tale esperienza ha creato e sulla necessità di trovare nuove soluzioni.


L’uomo è alla ricerca continua di un equilibrio e della propria strada.

Canevaro (2010) ci ricorda che l’uomo adulto si dibatte permanentemente tra un asse che oscilla tra il bisogno di appartenenza a un sistema familiare (che ci ha dato la vita e un nome e con cui abbiamo accumulato migliaia e migliaia di interazioni) e quello del bisogno di differenziazione, spinta spontanea che ci porta ad esplorare il mondo e disegnare un progetto esistenziale autonomo per inserirci creativamente nella cultura circostante. In questi movimenti di appartenenza-diffenziazione si inscrivono le difficoltà più frequenti che portano le persone a chiedere aiuto.

“Dalle frustrazioni possono nascere delle motivazioni che conferiscono alla nostra esistenza una particolare impronta. Se la nostra vita potesse fluire senza trovare ostacoli, forse nessuno di noi si accorgerebbe di vivere, così come ci rendiamo consapevoli dell’esistenza del nostro corpo solo quando qualche parte di esso ci fa male” (Carotenuto, 1991).


Guarigione o evoluzione?

In una recente pubblicazione Zoja (2013) indica quello che io intendo per cambiamento. Cambiamento non è guarire nel senso medico; guarire, secondo il modello medico, è ripristinare uno stato anteriore; un organo guarisce quando riacquista la funzione precedente. Cambiare, su un piano psicologico è trasformarsi. Durante la trasformazione la persona non è “sedata” (come in un intervento chirurgico) ma rischia di passare attraverso stati di angoscia maggiori di quelli per cui ci si è rivolti allo specialista (non è sempre così!). La “guarigione” è piuttosto un allontanamento dal funzionamento precedente non un riavvicinamento a ciò che era prima.


Gli strumenti per il cambiamento

Alla base del cambiamento ci deve essere la motivazione del paziente a lavorare per ottenerlo e un rapporto col terapeuta fondato sulla fiducia. E’ chiaro che queste condizioni, spesso, non si danno già dall’inizio ma si deve lavorare per costruirle e a volte non ci si riesce. Quando si va in terapia, o si chiede aiuto, a parte il sintomo, non si sa bene cosa cambiare e cosa fare per cambiare. La terapia è un processo di scoperta.


Le tecniche per il cambiamento

La prima tecnica è il colloquio. Il parlare, il raccontarsi, in maniera libera ma non senza regole. Il racconto, o narrazione, deve essere facilitato e guidato e può assumere tante forme: verbale, non verbale (fuori dal controllo cosciente), avvenire mediante un disegno tematico, test specifici, tecniche grafico proiettive, l’uso del corpo (scultura), l’uso di plastilina (plastico), costruzione di storie scritte, stesure di racconti, di lettere, diari di bordo, uso di immagini per collage, uso di foto, utilizzo di video, grafico della vita, genogramma e così via. Poi ci sono tecniche esperienziali almeno in coppia. La persona costruisce, ricostruisce e co-costruisce ciò che è.

Lo strumento importante è anche il coinvolgimento di persone significative in seduta (sia familiari che amici) per favorire l’incontro emozionale.